Coabitazione e nuove forme di vita sociale per gli anziani: cambiare prospettiva sulla solitudine
Fino a qualche anno fa avevo un’idea piuttosto rigida dei bisogni delle persone anziane.
Nella mia visione di allora, il problema riguardava soprattutto gli anziani non autosufficienti: quelli che avevano bisogno di assistenza quotidiana, di personale qualificato, di strutture organizzate. Tutto il resto — cioè gli anziani ancora autonomi, autosufficienti, in salute — sembrava appartenere a un’altra categoria, quasi “fuori dal radar” dei servizi.
Ero convinta che sradicare un anziano dal proprio contesto abitativo fosse sempre un errore.
Credevo che la casa rappresentasse, in ogni caso, l’unico luogo possibile per garantire dignità, sicurezza e continuità di vita. Pensavo che ogni forma di coabitazione o struttura, anche leggera, fosse una sorta di anticamera della perdita di autonomia.
Un cambiamento di sguardo: dall’esperienza personale alla riflessione professionale
Oggi non la penso più così.
Forse perché l’esperienza personale cambia il modo di guardare le cose.
Ho una mamma anziana — ancora pienamente autosufficiente e, sì, guida ancora l’automobile — lucida, autonoma e residente in un centro abitato. Eppure, nonostante la vicinanza mia e di mia sorella, entrambe nonne e non ancora in pensione, lei racconta spesso un senso di solitudine.
Un senso che non deriva dal vuoto intorno, ma da una mancanza di relazioni quotidiane, di motivi per uscire, di incontri spontanei e di scambi semplici ma vitali.
Ho capito che la solitudine non è quando mancano gli affetti, ma quando manca la quotidianità condivisa.
È quella sensazione sottile di vuoto che si insinua anche quando le persone che ami ti sono vicine, ti chiamano, ti pensano.
Ma la verità è che la tua giornata scorre da sola: ti alzi, ti prepari, vivi in un silenzio che nessuna telefonata riempie davvero.
Perché la solitudine, quella vera, è l’assenza di una presenza costante, di un ritmo condiviso, di qualcuno con cui dividere anche solo i piccoli gesti, come il caffè del mattino o una parola detta al volo prima di uscire.
È lì che si sente la mancanza più profonda: non negli affetti lontani, ma nelle presenze che non ci sono più ogni giorno.
Il fatto è che il benessere, anche in età avanzata, non dipende solo dall’autonomia fisica, ma anche e soprattutto da quella emotiva e relazionale.
La coabitazione come risposta concreta alla solitudine
Da questa riflessione nasce un cambio di prospettiva.
Credo che gli anziani che stanno bene possano continuare a stare bene più a lungo se non si sentono soli, se hanno la possibilità di sentirsi utili, di condividere momenti, interessi e quotidianità con altre persone nella stessa fase della vita.
Oggi guardo con grande interesse e convinzione ai modelli di coabitazione e di residenzialità leggera: luoghi dove persone autonome condividono spazi e momenti mantenendo però la propria indipendenza, la propria privacy e il proprio ritmo.
Non si tratta di “istituti” o di “case di riposo”, ma di nuove forme di vita sociale capaci di restituire energia, relazioni e senso di appartenenza.
In questi contesti ognuno ha la propria stanza, le proprie abitudini, ma anche la possibilità — se lo desidera — di varcare la porta e trovare una comunità viva, accogliente, simile a sé. Una comunità che non sostituisce la famiglia, ma che ne ricrea lo spirito attraverso il vivere insieme.
Non è la fine di un percorso, ma l’inizio di una nuova fase
Questo tipo di soluzione non significa “finire la propria vita in una struttura”.
Al contrario, significa cominciare una nuova fase: un nuovo abito quotidiano, una nuova speranza, un nuovo progetto.
Lasciare la propria casa per trasferirsi in un’altra abitazione — che resta comunque una casa, con le proprie cose, i propri ricordi e i propri spazi — non è una rinuncia, ma una scelta di rinascita.
È dare inizio a un nuovo pezzo di vita, arricchito da stimoli diversi, incontri, scambi e piccole scoperte quotidiane.
Una nuova famiglia sociale, fatta di libertà e legami autentici
La coabitazione permette di costruire una famiglia sociale: un gruppo di persone che non hanno legami di parentela, ma che condividono tempo, esperienze e attenzione reciproca.
Una famiglia “scelta”, in cui ritrovare compagnia, serenità, stimoli e, perché no, anche la possibilità di innamorarsi a 80 anni.
Perché la vita non smette di sorprenderci finché siamo disposti ad aprirci agli altri.
La solitudine non si supera con la televisione accesa o qualche visita saltuaria.
Si vince ricominciando a vivere insieme, in un ambiente dove la libertà individuale convive con la bellezza della relazione.
Dove ogni giorno può essere un inizio, non una fine.